Prima di dormire

fan fiction su Vampire Knight

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  1. Tohru Honda
     
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    Ecco l’ultimo lavoretto su Vampire Knight che ho sfornato, leggermente più lungo dei precedenti. Come al solito, anche in considerazione dell’argomento trattato, il testo non pretende di riproporre fedelmente il carattere dei personaggi che ne sono protagonisti o, comunque, le loro scelte; prendetelo come una semplice espressione di fantasia. Inoltre, fate attenzione al rating… ho indicato R, in quanto non si tratta certo di una NC-17, ma non si sa mai…
    Ah, vi lascio l'indirizzo in cui ho postato la ff: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=122522&i=1
    Nel caso vi andasse di lasciarmi un commento (sempre estremamente gradito **, positivo o negativo che sia), potete scriverlo direttamente sul link che vi ho indicato... se anche qualcuna di voi pubblica i propri lavori lì, probabilmente capirà il perchè della mia richiesta ^^" (nulla dà più soddisfazione del visualizzare la pagina personale e vedere che il numero delle recensioni ad una propria ff è aumentato *___*).





    Kaname era un mostro.

    Era diventato chiaro, ormai. Chiaro, perfino a lui.
    A chiunque avesse avuto modo di assistere al delinearsi di quel surreale, irrequieto affresco.
    Ai contorni sfocati di un rosso tanto acceso, alla miriade di petali scarlatti che, goccia dopo goccia, ricadevano sul suolo.
    Alla bella, insanguinata principessina che giaceva scomposta sul divano, prigioniera di un sonno dal sapore grottesco.
    Anche a lei, sarebbe stato chiaro.
    Se fosse stato in grado di vederlo.
    Se quel sonno fosse stato un po’ meno profondo. Un po’ meno lungo.
    Se il sangue rimasto nel suo corpo fosse stato sufficiente a garantirle il risveglio.

    Ancora un poco.
    Ancora pochi minuti.

    Non avrebbe spezzato l’incantesimo malvagio con un bacio, sebbene le labbra della principessa non fossero meno rosse di quelle di Biancaneve.
    La carnagione meno pallida.
    Il veleno della mela meno amaro.
    Velenoso, quel sangue.
    L’aveva fatta cadere addormentata, e non sarebbe bastato il bacio del principe a riportarla in vita.
    Neanche se lui lo fosse stato.
    Neanche se fosse stato il cavaliere in armatura, non il frutto proibito nel quale la strega aveva instillato il veleno.
    Non sarebbe servito.
    Neanche se l’avesse voluto.
    Neanche se avesse trovato il coraggio di farlo, a dispetto dell’opprimente sensazione di disgusto che lo assaliva.
    Lo assaliva, raccomandandogli di non mentire.

    E ricordandogli che gli piaceva.

    Gli piaceva, terribilmente.
    L’idea che fosse il proprio sangue, a sporcare le mani e i capelli di lei.
    Ad aver tracciato quel segno vistoso lungo la sua camicetta bianca, appena un po’ più sbottonata del dovuto.
    Ad invadere ancora la sua bocca, dalla quale scivolava in un rivolo sottile. Bocca che non avrebbe potuto profanare in modo più volgare.
    Ci aveva provato gusto, a corromperla.
    Gli era piaciuto.
    Gli piaceva.
    Respirare quell’aria, il caramellato profumo di lei che s’intrecciava a quello aspro del sangue.
    Osservarla rigirarsi febbrilmente sul divano, le pieghe della gonna che si riavvolgevano disordinatamente lungo le sue gambe.
    Quelle sottili ali rosse che le carezzavano il corpo, più dolcemente di quanto avesse fatto lui.
    Non era stato gentile. Lasciava, dunque, che fosse il proprio sangue ad esserlo, al posto suo.

    Si chiese cos’altro, se non l’eccitazione provata nell’osservare un’immagine tanto amara, potesse etichettarlo definitivamente come mostro.

    Non era così codardo da negarlo, così poco consapevole di se stesso da non riconoscerlo.
    Che lo sapeva.
    Che l’aveva sempre saputo, fin troppo bene.
    Dal giorno in cui l’aveva incontrata, aveva sempre saputo che avrebbe finito per mangiarla.
    Per rivestire il ruolo della belva da cui l’aveva tratta in salvo… solo per poterla divorare personalmente.
    L’aveva sempre saputo.
    E anche lei, lo sapeva.
    Lo sapeva, e lui si era preoccupato di ricordarglielo.
    Lo aveva fatto.
    Tante volte, davvero.
    Era stata lei a scegliere di non ascoltarlo.

    Se l’è cercata

    Non poteva credere di averlo pensato.
    Di aver accettato, per un attimo soltanto, di addossarle il peso di una colpa di cui era il solo responsabile.
    Come se fosse stata lei, ad indurlo a fare una cosa simile.
    Come se lui potesse accusarla per non averglielo impedito, per aver taciuto.
    Come se non sapesse che un suo “no” non sarebbe comunque riuscito a fermarlo.
    Era solo sua, la colpa.

    Sollevò lo sguardo, lentamente, verso di lei.
    Ancora non si risvegliava, ma era normale.
    L’aveva avvisata, che si sarebbe trattato di un soffocante, doloroso sonno.
    Che lui le sarebbe rimasto accanto, finchè non avesse aperto gli occhi.
    Che doveva solo pensare che sarebbe finita presto.

    … aveva mentito, su quest’ultimo punto.

    Una dolce, crudele bugia, pronunciata quasi inconsciamente.
    Quasi.

    Cercando di non fare rumore, si avvicinò al divano sul quale l’aveva adagiata, dopo averla vista perdere i sensi.
    Per un momento, credette di sentirla mormorare qualcosa, ma l’espressione confusa che ancora le segnava il volto lo convinse a confermare quel lamento come l’ennesima variante dello stato di delirio nel quale era precipitata, da circa un paio d’ore.
    Da poco prima che il sole tramontasse, quando era riuscita a trovare un ritaglio di tempo per correre da lui, senza essere notata dall’occhio vigile dell’altro guardiano.
    Le sollevò la testa, delicatamente, facendo attenzione a non coinvolgerla in spostamenti troppo bruschi, già innaturalmente inquieto il riposo da cui si stava facendo cullare; un paio di ciocche di capelli, ricadendole lungo le guance, tracciarono su di esse un’irregolare scia di sangue.
    Una volta accomodatosi sul bracciolo destro del divano, Kaname fece ricadere il capo di Yuuki sulle proprie ginocchia, per poi lasciare che lei vi si rannicchiasse più comodamente ed afferrasse la stoffa dei suoi pantaloni color miele fra le dita, con una forza tale da procurarvi un leggero strappo.
    Dopodichè, sempre con estrema cautela, fece scorrere una mano sulle gote della ragazza, nel tentativo di ripulirle dal sangue che le aveva sporcate.

    Un sussulto.
    Inaspettato, impaurito.
    La mano di lei che stringeva la sua.
    Kaname non immaginava che potesse essere così calda, ancora.
    Che potesse tremare tanto convulsamente, a dispetto del calore che emanava.
    Che la sua inconscia, distratta dolcezza lo avrebbe convinto a fermarsi, ad interpretare quel gesto come un’inconsapevole, timida richiesta di silenzio.
    Che Yuuki volesse continuare a rimanere avvolta da quel sangue, quello di lui…?


    Non lo sapeva.
    Non lo capiva.
    Non l’aveva capito, neanche quando si era presentata al suo cospetto, in piedi, ferma sull’uscio di quel grigio appartamento, un infreddolito pulcino bagnato di neve.
    Non l’aveva capito.
    Se l’era chiesto, certo.
    Se ad averla condotta fin lì fosse stato il desiderio di sangue, o il desiderio di lui.
    Quale delle due risposte avrebbe preferito udire.
    Se sarebbe stato più facile convivere con la razionale impossibilità di soddisfare quella sua sete disperata o, chissà, con la consapevolezza di essere utile solo come fonte per zittire quella di lei.
    Come cibo. Il migliore, sicuramente.
    Non gli dispiaceva, una possibilità del genere.
    Essere mangiato da lei.
    Sperava che non dimenticasse di divorargli anche il cuore, però, o sarebbe stato impossibile accettare l’idea di essere solo carne e sangue, ai suoi occhi.
    Non avrebbe potuto sopportarlo.
    Tollerare di vederla aggirarsi maldestramente per la stanza, il cappotto completamente inzuppato, gli occhi lucidi e timorosi.
    Incerti.
    Se venire lì fosse stata o meno una buona idea.
    Se avesse fatto bene ad obbedire docilmente alle parole che lui le aveva rivolto il giorno prima, sfrontata richiesta che aveva formulato impulsivamente, senza rendersi conto del suo effettivo peso.
    Senza pentirsene, in seguito.
    Senza ritrattarla.

    L’aveva fatta entrare in casa, certo, accogliendola con le dovute cerimonie.
    Aiutandola a sfilarsi il lungo cappotto fradicio, chiedendole se volesse portata una coperta asciutta con cui ricoprirsi le spalle.
    O se avesse voglia di bere qualcosa di caldo.
    Rendendosi perfettamente conto dell’altro possibile significato nascosto in quella frase.
    Quello che l’aveva fatta arrossire, tremare appena.
    Quello che aveva avvolto l’ambiente con un opprimente silenzio, intervallato solo dal ticchettìo delle gocce di pioggia che s’infrangevano sulle ampie vetrate della camera.
    Quello che l’aveva convinto a decidere che, qualunque fosse stata la ragione che avesse spinto Yuuki fra le sue braccia, quel giorno, l’avrebbe scoperta immediatamente.
    Difficilmente l’avrebbe lasciata andare, prima di essersene assicurato.
    Difficilmente avrebbe accettato una risposta diversa da quella che desiderava ascoltare.
    Difficilmente.
    Non aveva escluso del tutto la possibilità che ciò si verificasse ugualmente, solamente perché intenerito dallo sguardo commosso della ragazza.
    Solamente per questo.

    Solamente per questo, si era premurato di ricordarle che le avrebbe fatto male.
    Che sarebbe stato doloroso, terribilmente.
    Che non avrebbe avuto nulla a che a vedere con la sofferenza infertale dai morsi di Kiryu.
    Che il pensiero che lei avesse permesso a quel ragazzo una cosa del genere, forse, lo avrebbe convinto a farle un po’ più male.
    Apposta.
    Forse.
    Forse, perché non gli ci era voluto molto tempo per vergognarsi di quanto aveva appena detto.
    Non lo aveva dato a vedere.
    Non l’aveva fatto, perché era un bene, che lei provasse paura.
    Paura, anche troppa.
    Le sarebbe riuscito più facile stringere i denti e non urlare.

    Gliel’aveva ricordato, dunque.
    Aveva continuato a ripeterglielo, mentre le sbottonava la camicetta, con deliberata lentezza.
    Per offrirle l’illusione di poter scegliere, ancora.
    Di poter tornare indietro, se solo l’avesse voluto.
    Per vedere se ci avrebbe provato davvero.
    Il primo bottone.
    Un breve tremito, quasi impercettibile.
    Il secondo.
    Un sospiro soffocato. L’aria le si era negata, per un momento.
    Il terzo.
    Non avrebbe avuto bisogno di spingersi così in là, lo sapeva perfettamente.
    Lo aveva intuito anche lei.
    Per questo aveva sbarrato gli occhi, sorpresa. Probabilmente.
    Il quarto.
    Troppo in là.
    Aveva sollevato lo sguardo, in cerca di quello di Yuuki, lasciando che le proprie dita indugiassero lungo quell’angolo del suo corpo che non avrebbe dovuto scoprire, carezzandolo languidamente.
    Nessuno sguardo gli aveva risposto.
    Lei teneva le palpebre serrate, il respiro agitato, le mani strette intorno alla larga camicia di lui, in quello che suonava come un impacciato tentativo di sorreggersi.
    Non andava bene.
    Non andava bene, perché non era ancora arrivato il momento di svenire.
    Non sapeva ancora cosa volesse dire trovarsi sul punto di perdere i sensi.
    Perderli. I sensi.
    Sul serio.
    L’avrebbe scoperto poco dopo.

    Poco dopo, quando lui ebbe sciolto la presa delle sue mani, afferrandole i polsi con decisione.
    Non era stato violento. Solo, irremovibile.
    Irrealmente calmo, nello scostarle il già allargato colletto, vincendo l’ultimo, esile ostacolo che si frapponeva tra lui e quel collo, ancora segnato da una vecchia cicatrice.
    L’aveva fatto arrabbiare, la vista di quell’impreciso ghirigoro scarlatto.
    Tanto.
    L’aveva fatto arrabbiare tanto.
    Se ne rendeva conto, adesso che ci ripensava.
    Che era stata la scoperta di quel segno, a fargli dimenticare di non doverle, di non volerle farle troppo male.

    Se l’era dimenticato.

    Non era stata colpa sua, se aveva perso il controllo.
    Né di lei, per la quale l’aveva perso.
    La colpa era solo di quel ragazzo, se Yuuki aveva finito per gridare.
    Gridare, e gridare, finchè la voce non le era morta in gola, affogando nel dolore.
    Nel sangue che aveva cominciato a colarle dalle labbra, distrattamente morse con troppa foga, nel tentativo di mettere a tacere l’impulso di urlare.
    Era successo.
    Se ne sarebbe rimproverato, se solo non fosse stato certo di non esserne responsabile.
    Di non aver potuto fare altrimenti.
    Di non aver potuto fare a meno di trovare, in quel miele dolcissimo, sfumature inspiegabilmente amare, al pensiero di non essere stato l’unico ad assaggiarlo.
    Fare a meno di stringerla a sé, ancora più forte, gli abiti slacciati di entrambi che rendevano quel contatto più intimo di quanto avrebbe dovuto essere, ogni volta che certe immagini gli tornavano in mente.
    Responsabile.

    Gli era venuto il dubbio di esserlo, non appena, sollevato il volto dal collo di lei e messo fine a quella deliziosa tortura, ne aveva incontrato lo sguardo infranto, anch’esso leggermente venato di rosso.
    Una fitta.
    Un’ombra di dolore.
    Non aveva osato paragonarlo a quello che le aveva appena inflitto.
    Di questo, si, si sarebbe rimproverato.
    Rimproverato, anche di ciò che stava per fare.
    Tagliarsi il palmo della mano e sollevarla fino alla bocca della ragazza, sfiorandola appena, lasciando che fosse lei a decidere quando cominciare.
    Non era stato costretto ad attendere a lungo.

    Un brivido, un accenno d’esitazione, le labbra di Yuuki che toccavano timidamente quella ferita, seguendone con sempre minor incertezza il percorso.
    Sempre meno.
    Si allontanavano e si riavvicinavano, poi si allontanavano di nuovo.
    E si riavvicinavano ancora.
    Raccolta una prima goccia di sangue con la lingua, sembrò non avere intenzione di fermarsi nuovamente.
    Non lo fece, in effetti.
    Una seconda ed una terza.
    Cominciò a stillargliene con forza, senza attendere che sgorgassero liberamente.
    Senza rendersi conto di cosa ciò comportasse, di come lui la stesse silenziosamente incoraggiando, assecondando con la mano i movimenti della sua bocca.
    Non se n’era resa conto, intenta com’era ad abituarsi al sapore di quel nettare scarlatto.
    A sorprendersi, nel trovarlo tanto gradevole, quasi buono.
    Non aveva fatto caso a lui, che nascondeva il proprio volto nell’incavo fra la spalla e il collo di lei, quello che aveva appena finito di martoriare con i denti, circondandole dolcemente la vita con le braccia, avvicinandola ancora di più a sé.
    Si era nascosto, per impedirle di guardarlo.
    Guardare la sua espressione, mentre lei ne beveva il sangue.
    Impedirle di vederlo chiudere gli occhi, di vederlo forzarsi a serrare le labbra.
    Di intuirne il desiderio.
    Di capire come ciò che gli stava facendo lo portasse a riesumare l’altra sua volontà, più oscura ed impronunciabile.
    Più intensa.
    Pericolosamente maliziosa e stuzzicante, per tutti e due.
    Incombente, troppo. Reale.
    Impronunciabile, ma glielo aveva detto.
    A lei, che aveva cominciato a leccare il sangue scivolatogli sulle dita, lunghe e sottili, perseverando in quel tormento dal sapore ancora più zuccherosamente perverso.
    Che la voleva.
    Glielo aveva detto, in un sussurro spezzato.
    Incapace di capire se, con il rafforzarsi della sua pur debole presa, Yuuki intendesse suggerirgli che, si, l’aveva ascoltato.
    Quel desiderio appena sillabato, poi ripetuto, ancora e ancora, più chiaro ad ogni passo.
    Un’altra volta.
    Finchè non la sentì indebolirsi, appena un po’.
    Il suo tocco farsi più leggero, la ricerca di sangue più confusa.
    Le gambe cederle, costringendola ad appoggiarsi a lui, alle sue braccia che prontamente la sostennero.
    A lungo.
    Anche dopo essersi accorto di come lei fosse ormai svenuta, troppo il sangue di cui l’aveva privata. Il piacere da lei provato nel bere il suo, nella serie infinita di baci con cui gli aveva mangiato la mano.


    E lui, adesso, in risposta a quell’insolita spirale di dolcezza, intrecciò delicatamente le proprie dita a quelle di lei, bella damina ancora addormentata.
    Sorridendo nell’avvertirla ricambiare, chissà quanto consapevolmente, la sua stretta, meno flebilmente di quanto si era aspettato.
    Mani intrecciate, l’una con l’altra.
    Lentamente, portò quella di lei alle labbra, per poi catturarla in un lungo bacio caldo.
    Caldo, infinitamente.
    Quasi dispettoso, nel suo aver tradotto quella presa innocente in un’altra tanto sensuale.
    Capriccioso, nel rifiutarsi di lasciarla andare.
    Anche una volta resosi conto di averla svegliata, in qualche modo, sottratta momentaneamente a quel sonno maledetto.
    Non sarebbe durato molto.
    Pochi minuti. Il tempo necessario per farle accettare quella sofferenza come reale, non frutto di un incubo, e lasciarla sprofondare di nuovo in essa, forte di una consapevolezza che avrebbe reso ancora più difficile la sua sopportazione.
    Un breve sprazzo di luce soffusa.

    -Buonasera.- disse, abbozzando un sorriso malinconico.
    Non era ancora notte fonda.
    Yuuki si era presentata alla sua porta verso il finire del tramonto, non era rimasta svenuta più di un paio d’ore.
    Avrebbe controllato l’orologio, alle proprie spalle, se solo non avesse temuto di spaventarla, con un movimento improvviso.
    Spaventarla. Di più.
    Tremava già così tanto, prima ancora di incontrare il suo sguardo.
    Di prendere atto del dolore causatole da quella macabra ferita.
    Di sentire il sangue scorrerle lungo la pelle, diramandosi in rivoli sempre più sottili.
    Di ricordarsi il perché si trovasse lì.
    Cosa fosse successo.
    Sfocate immagini rosse.
    Un velo opaco pronto a sollevarsi, permettendo alla sua memoria di dare un nome ad ogni frammento di colore.
    Restava da sperare che ciò non si verificasse troppo presto.
    Nell’attesa, tutto ciò che Kaname poteva fare era abbracciarla, forte.
    Mettere a tacere quel costante, terrorizzato tremito.
    Offrirle il tepore di un abbraccio nel quale avrebbe potuto rifugiarsi, quando avesse fatto chiarezza nella vorticosa girandola che ancora teneva intrappolati i suoi pensieri.
    Stringerla a sé perché lo desiderava tanto, semplicemente.

    Fu quello che fece, dopo averla cautamente aiutata a mettersi seduta sul divano, la testa che ancora le girava, senza concederle un attimo di tregua.
    La strinse.
    Piano, con delicatezza.
    Non voleva spezzarla, non voleva assolutamente.
    Sapeva che avrebbe rischiato di farlo, se solo avesse afferrato con troppa foga quel cuore già incrinato.
    Se solo fosse stato un po’ meno attento nel circondarle la vita con un braccio, in un elegante, sinuoso movimento.
    Nel passarle la mano libera dietro la nuca, portandola ad adagiare il volto sulla sua spalla.
    Se avesse permesso che la volontà di scaldarla lasciasse il posto a quella di farla sua, e basta.
    Senza giri di parole, senza ipocrisia.

    … no, non l’avrebbe permesso.

    Non questo.
    Non poteva.
    E lo voleva solo in parte.
    Solo se il farlo non l’avrebbe rotta.

    -Mmh…- fece lei, volgendo lievemente il capo, le labbra che quasi sfioravano il collo del ragazzo.
    Kaname si chiese se si trattasse davvero di un caso.
    Se fosse ancora la Yuuki ferita, a gemere.
    Non la giovane, spaesata vampira che si sarebbe finalmente destata, di lì a poco.
    Escluse quest’ultima possibilità, nel momento in cui la vide passarsi convulsamente una mano sul lembo di pelle dilaniato, una cicatrice che si sarebbe vista a lungo.
    Più a lungo di quella che l’aveva preceduta.
    Avrebbe ridacchiato, se solo non fosse stato il primo a trovare orrendo quel pensiero.

    Un sussulto, ancora.
    Un paio di gocce scarlatte che ricaddero sul pavimento, con un ovattato tintinnìo.
    Stava sfregando troppo, con troppa furia.
    E non era opportuno che perdesse altro sangue.
    Che lo sprecasse.

    -Ehi… ehi, Yuuki.- la richiamò, afferrandole entrambi i polsi, con fermezza –Non devi fare così. -
    La ragazza provò a divincolarsi, con scarsa convinzione.
    O forse no.
    Forse lo voleva, ma era ancora eccessivamente debole.
    E il sangue continuava a scorrere, imperterrito, sordo a qualunque richiamo.
    Una ferita divenuta più ampia, dalla cornice paurosamente irregolare.
    Si domandò se il dolore provato fosse stato così acuto da spingerla a desiderare una cosa del genere, che quella parte del suo corpo venisse tagliata via del tutto. Senza pensare che la sofferenza avrebbe finito per farsi più stridula.

    Quasi istintivamente, avvicinò la propria bocca al collo di lei.
    Che si ribellò, in un certo senso, stringendosi a lui talmente forte da conficcargli le unghie nelle braccia scoperte.
    Istintivamente, anche lei. Che non avrebbe provato ad ostacolarlo, se fosse stata cosciente… ben consapevole di averlo cercato volontariamente.
    Kaname non protestò, né fece nulla per sottrarsi a quella presa.
    - … tranquilla.- si limitò a sussurrarle, dolcemente, all’orecchio.
    Non aveva intenzione di morderla.
    Non ci avrebbe riprovato.
    Non adesso, quel fragile corpicino straziato a tal punto.
    Non adesso, sul serio.
    Poteva stare tranquilla.

    Lei sembrò comprendere, allentare un po’ la stretta. E lui non indugiò oltre.
    Piano, sfiorò con le labbra la ferita infertale, percorrendone con la lingua il profilo, delicatamente, attento a non premervi su più del necessario. Leccando via ogni goccia di sangue stillata inutilmente da essa, in una proibita e voluttuosa carezza.
    Caldi, caldi baci, che attenuavano timidamente il dolore.
    Un altro, e un altro ancora.
    Una dolcissima cura che le infiammò il viso, la fece tremare di nuovo.
    Tanto più piacevole, ora, la ragione del suo gemere.
    Tanto più sofferto, il distacco da quella bocca, perfettamente disegnata.
    Bocca che, pochi secondi dopo, vide così vicina alla propria.

    Un po’ più personale, stavolta, il desiderio.
    Più egoista.
    Più intenso.
    Più deciso a non ammettere la presenza di un qualsiasi ostacolo.
    Disposto a riconoscere come vago pretesto la presenza del proprio sangue, ancora, sulle labbra di lei.
    Labbra che, una volta baciato via il rosso, costrinse dolcemente a dischiudersi, ad accettare il pacato insinuarsi della sua lingua.
    A giocare con essa, lentamente, in una danza irresistibilmente erotica.
    Un bacio morbido, morbido.
    Adulto.
    Yuuki se ne rese conto, a dispetto della confusione che ancora regnava fra i suoi pensieri.
    Prese coscienza del piacere che ne stava traendo. Del profumo speziato di lui, che tanto bene si accompagnava alla sensualità di quell’insolito svezzamento.
    Alla consapevolezza di come fosse quel bacio a segnare la sua rinascita, non il morso che poco prima l’aveva ferita.
    Non aveva osato sperarlo.

    Non aveva osato sperare che ciò che provava stesse avvenendo davvero, quando lo sentì prenderla in braccio e distenderla sul divano, sotto di sé, con un’irruenza che le suonò stranamente gentile.
    Quando avvertì la bocca di lui scendere nuovamente lungo il suo collo, sfiorare un’altra volta quel macabro taglio non meno dolente, rispetto a prima, per poi scendere ancora, con una calma che, in contrasto con il respiro affannoso che lo sentiva emettere, le parve innaturalmente forzata.
    Appena un po’.
    Una calma che, una volta che le sue labbra le ebbero sfiorato il seno, si sciolse in una pioggia di baci, profondi e lascivi. Un frenetico ed amabilmente infinito intreccio di piccoli, deliziosi gesti, la bocca di lui che si divertiva a giocare con la pelle della ragazza, stuzzicandola maliziosamente con la lingua. Le sue mani che le accarezzavano le gambe, incuranti delle deboli proteste che lei riusciva a sillabare, in risposta all’audacia con la quale avvertiva violata la propria intimità, sempre più sfacciatamente.
    E Kaname l’aveva ammesso, ormai.
    Che voleva solo fare l’amore con lei.
    Senza aspettare che fosse abbastanza lucida da rendersene conto, senza attenderne il permesso.
    Senza temporeggiare, non un secondo di più.
    Non voleva. Non ci sarebbe riuscito.
    A guardarla dormire, ancora, esile bambolina insanguinata, senza cedere al desiderio.
    Che bruciava. Bruciava terribilmente, da troppo tempo.
    Una fame insaziabile che premeva per essere soddisfatta.
    Non ci sarebbe riuscito, davvero.
    Era impensabile.
    Impensabile anche solo provarci.
    Impensabile, eppure…

    Si ritrasse, lentamente.
    Il battito del cuore ancora troppo veloce, il petto che si sollevava ed abbassava ad intervalli troppo brevi.
    Troppo.
    Un respiro, profondo.
    Un altro.
    Sentiva il corpo in fiamme.
    Ma poteva considerarsi abbastanza bravo nel riuscire a nasconderlo.
    -… domani.- disse, in un sussurro –… da domani, sarai mia.-
    Dall’indomani.
    Quando il sangue avrebbe già compiuto il proprio dovere, quando il legame fra loro sarebbe stato chiaro a chiunque, senza che fosse necessario porre alcuna domanda.
    -Non ci sarà né Kiryu, né nessun altro. - continuò, il tono di voce più fermo, incontrando finalmente lo sguardo spaurito di lei –Nessuno. Mia, soltanto.-
    Non ci sarebbero stati dubbi. Né ostacoli.
    Nessuno avrebbe avuto il coraggio di negarlo, nessuno avrebbe potuto.
    Solo sua, per sempre.
    Dall’indomani.
    Poche ore, poche ore ancora.
    L’avrebbe presa, si.
    Non appena si fosse svegliata, immediatamente.
    Non il tempo per una parola, per un solo pensiero.
    Avrebbe gridato, probabilmente. Oh, si che l’avrebbe fatto.
    Ma per ragioni un po’ diverse dalla paura.

    Yuuki annuì.
    Lentamente, ma senza esitare.
    Se ciò fosse dovuto al richiamo del sangue, Kaname non avrebbe mai avuto modo di saperlo.
    Se i baci scambiati fossero stati voluti da Yuuki, quella che ancora non si era promessa a lui.
    Se quanto accaduto avrebbe avuto luogo ugualmente, se quello scambio di sangue non fosse mai avvenuto.
    La ragione per la quale aveva bussato alla sua porta, quel pomeriggio.
    Non l’avrebbe saputo, mai, con certezza.
    Il prezzo che avrebbe dovuto pagare, per averne violato tanto brutalmente la dolcezza.
    Era giusto, in fondo.
    Troppo poco, forse.

    Lei lo capì.
    Capì cosa lui stesse pensando, e provò a parlargli.
    Ci sarebbe riuscita, se solo la stanchezza ed il dolore non fossero giunti a sopraffarla.
    Se solo lui, sorridendole appena, non l’avesse esortata a chiudere gli occhi, a cedere a quell’intollerabile pesantezza.
    A tacere, a non dire qualcosa che potesse, anche solo in parte, privarlo del peso che aveva deciso di sopportare.
    A non tentare di liberarlo.
    Le sue parole non avrebbero avuto più alcun peso, quando si fosse svegliata; la vaga fiducia che si sarebbe potuta attribuir loro, adesso, sarebbe svanita.
    Avrebbe potuto dirglielo, allora.
    Dirgli qualunque cosa.
    Che era venuta per lui, che lo amava.
    Non sarebbe più stato tenuto ad ascoltarla.

    Stupido.

    Fu l’ultima cosa che Yuuki riuscì a pensare, prima di perdere nuovamente conoscenza.
    Una volta aperti gli occhi, l’avrebbe ritrovato.
    L’avrebbe trovato davvero, per la prima volta.
    L’avrebbe amato.
    Chissà se sarebbe riuscita a fargli capire di aver provato lo stesso sentimento, anche prima di addormentarsi.
     
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    posso inserirla nel blog?
     
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    Fai pure ^^.
     
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    che belluuuuu *___* grazie grazie!!
     
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