Notturno

fan fiction su Vampire Knight

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  1. Tohru Honda
     
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    Wops, ho trovato solo ora la sezione dedicata alle fan fiction ^^"... e ne approfitto per postare una mia one-shot su Vampire Knight, la prima che ho realizzato a riguardo (e infatti credo che la seconda, Velenoso, che posterò dopo questa, mi sia riuscita un po' meglio).
    Vi lascio il link su cui l'ho pubblicata, nel caso vi andasse di lasciarmi un commento ^^: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=115578&i=1





    Rosso.

    Rosso, ogni sua sfumatura.

    Il rosso più acceso.

    Il più opaco, il più caldo.

    Il più amaro.

    Il più tagliente, quello che ricadeva per terra, goccia dopo goccia, una volta sottolineato malamente il percorso incerto tracciatole lungo il collo dalla prima scintilla scarlatta, che ancora le bruciava la pelle.

    Ardeva. Ardeva sempre, il fuoco tenuto in vita dal continuo scorrere di quella sostanza velenosa.

    Ardeva, e faceva male.

    Un dolore a lei familiare, appena più accentuato da un rosso mai stato tanto intenso.

    Mai stato tanto.

    Tanto.

    Troppo, e ancora.

    Un po’ di più.

    Solo un po’.

    Sperava.

    Un po’ ancora e basta.



    Basta


    Forse.

    Forse, perché dubitava che nel suo corpo fosse rimasto sangue sufficiente a soddisfare quel poco più.

    Era sul pavimento.

    Impregnava i vestiti.

    Scendeva lungo quella bella gola.

    Tutt’intorno.

    Non vedeva altro.

    Non sentiva altro… non pensava.

    Non ci riusciva, troppo il sangue intento a cullare con dolcezza la sua mente, affogandola poco a poco. Impedendole di prestare ascolto a quella vocina che non faceva che sussurrarle all’orecchio, insistentemente, che non era quello il momento di dormire.

    Di affogare.

    Non era il momento adatto.

    Non lo era, perché avrebbe corso il rischio di svegliarsi morta.



    Non perdere i sensi



    Non perderli, anche se la vista cominciava ad offuscarsi, rendendo l’affresco di rosso che la circondava ancora più confuso.

    Anche se quell’odore aspro si andava facendo sempre più pungente… un senso improvviso di nausea.

    Anche se la testa le girava, le girava ancora.

    Anche se sentiva freddo, sempre di più.

    Anche se non aveva coscienza di nulla, ad eccezione del dolore.

    Il dolore che la manteneva sveglia. Che la riscaldava appena un po’, incandescente il sangue che continuava a sgorgare da una ferita tanto piccola, la puntura di un insetto.

    Di un’ape.

    Un’ape affamata.

    L’ape regina.



    L’ape mi sta divorando



    La stava divorando, ed il ritrovarsi costretta ad osservare lo scorrere di quel miele scarlatto la disgustava sempre di più.



    Disgustoso



    Pensare che quel veleno fosse contenuto nel suo corpo.

    I capelli sempre più rossi.

    Le gocce che ricadevano ai suoi piedi, le poche sfuggite alla presa di quel bacio perverso.



    Un bacio



    Malato. Crudele.

    Crudele, perché la feriva.



    Prepotente



    Prepotente, perché non accennava a sciogliersi.

    Non accennava a sciogliersi, l’abbraccio capriccioso nel quale quel cattivo principe la teneva stretta a sé, ancora.

    Stretta.

    Una delicatezza che stonava con il sapore amaro del sangue, con la sensazione di quei canini aguzzi che le martoriavano la carne, incuranti delle lacrime che le scivolavano lungo le guance.

    Forse non le vedeva nemmeno.

    Forse non voleva vederle.

    Forse non ci riusciva, il bellissimo felino intento a sbranarla con una ferocia che Yuuki non aveva mai avuto modo di scorgere, prima d’allora, in lui.

    Nei suoi modi gentili, nel suo sguardo profondo. Nel ricordo del ragazzino insanguinato che le aveva salvato la vita, quel lontano giorno di neve.

    Neanche nella figura di quel vampiro triste, incorniciata dal tenue chiarore della luna.

    Non era mai stata in grado di vederla.



    Solo adesso



    Solo in quel momento.

    Solo nel rendersi conto che lui non le avrebbe mai permesso di fuggire.

    Che non le avrebbe concesso alcuna via di fuga dal suo abbraccio.

    Che non gli importava di toglierle il respiro, stringendola tanto forte.

    Che non le avrebbe consentito di opporsi, per quanto consapevole della sua paura.



    Aveva paura.



    Avrebbe voluto gridarlo.

    Avrebbe voluto gridare.



    Se solo quelle carezze non fossero state così dolci.



    Se solo quelle mani non l’avessero sfiorata con tanta delicatezza, quasi avessero paura di romperla.

    Quasi quel principe silenzioso volesse baciarle via le lacrime che lui stesso l’aveva spinta a versare.

    Quasi volesse scacciare il dolore che continuava a infliggerle.



    Se solo la sofferenza provocatale da quella bocca le avesse impedito di percepirne il tocco, voluttuoso ed arrogante.

    Se solo la violenza di quelle labbra non si fosse limitata ad accettare un invito.



    Un invito



    Il suo.

    Il suo, di quella sciocca ragazzina che non poteva fingere di non essersi accorta di come lui la stesse osservando.

    Di come quello sguardo l’avesse seguita con attenzione, fin da quando aveva fatto il proprio ingresso nella stanza.

    Di come non ci fosse nulla di rassicurante, nulla di gentile, in quei cinici occhi da gatto.

    L’aveva notato.



    L’aveva notato, ed era rimasta zitta.

    Non una parola, non un accenno di fuga.

    Non che avesse potuto sperare di riuscire a scappare, a scappare da lui.

    Era questo che si ripeteva, i canini che scendevano sempre più in profondità.

    Che non avrebbe potuto far nulla.

    Tacendo su come sapesse bene che non era stata certo quella consapevolezza ad impedirle di provarci.

    A fare qualcosa.

    Qualunque cosa le avesse risparmiato di trovarsi lì, adesso, i sensi che la abbandonavano.

    Sarebbe bastato un passo.

    Un passo indietro, un passo soltanto, quando si era accorta che già da un po’, ormai, lui non si preoccupava più neanche di replicare alla frasi di circostanza che lei, nervosa, aveva cominciato a declamare senza sosta.

    Che si era alzato dalla grande poltrona di velluto rosso nella quale, fino ad un attimo prima, si trovava pigramente accucciato.



    Un passo indietro.



    Quando l’aveva visto avvicinarsi a lei, con una calma innaturale. Allungare una mano verso il suo volto, sfiorandolo appena.

    Sarebbe stato sufficiente, forse, a risvegliarlo dall’inquietante torpore in cui sembrava essere sprofondato.

    A dirgli di no, dirgli di non continuare.

    Non continuare a farle scorrere le sue dita affusolate lungo il viso, una carezza a cui non riusciva a sottrarsi.

    Più giù, dove si fermarono esitanti, una fascia bianca che ne ostacolava il cammino.



    In quel momento, forse.



    In quel momento, avrebbe potuto fermarlo.

    Quando ne ebbe incrociato infine lo sguardo, appena più familiare di quello che l’aveva scrutata fino ad allora. Appena un po’ più incerto, timoroso.

    Timore, quello delle mani che avevano preso a farle saltare i bottoni della fascia, con una lentezza apparentemente calcolata.

    Come se sperasse che lei lo fermasse.

    Che lo facesse tornare in sé, che gli dicesse di smetterla.

    Che, se si fosse attardato un po’ di più, l’incubo si sarebbe esaurito ancora prima di catturare davvero entrambi.

    Che prendere tempo sarebbe servito a qualcosa.

    Non servì.



    A nulla. Per colpa sua.



    Per colpa di lei, che si era rifiutata di parlare.

    Che aveva atteso che lui finisse di spezzare l’ultimo bottone, per cominciare ad avere paura.

    Neanche troppa.

    Non ancora.

    Non ancora, nemmeno quando lo sentì chinarsi su di lei, sfiorarle il collo con un bacio sottile.

    Quasi volesse chiederle scusa. O il permesso.

    Un’ultima volta, prima di affondarvi i canini.

    Troppo tardi, adesso, per recriminare.

    Non l’avrebbe fatto.



    Se non, forse, un’infinità più tardi, quando cominciò a chiedersi se, al sangue che le bagnava la pelle, si fossero sommate le lacrime che immaginava avessero seguito quel singhiozzo sommesso, che era certa di aver udito.

    Ne era certa, prima ancora di vederlo sollevare il volto, la fine di quella dolce tortura.

    Prima ancora di sentirlo sussurrare qualcosa, l’incomprensibile parola più malinconica che le fosse mai stata rivolta. Il capo ancora nascosto fra i capelli di lei, come se avesse paura di incontrarne gli occhi impauriti, una volta uscito da quel nascondiglio.

    Come se fosse più spaventato di lei, che non aveva nemmeno la forza di tremare, tenuta in piedi solo dalle calde e sicure braccia del ragazzo, che le circondavano la vita.

    Paura di guardarla.

    Guardare l’errore, il risultato della propria debolezza.

    Colei che l’aveva lasciato cadere.

    Debole, più che mai. Pallida come un fantasma.

    Incapace di muovere un dito, emettere un suono.

    Una bambola di stoffa, priva di vita, che lui stava attento a sorreggere con estrema cautela.



    Non faceva che chiederselo, Yuuki.

    Chiedersi se quelli fossero i suoi ultimi attimi di vita, se Kaname stesse piangendo per questo.

    Se l’avesse uccisa.

    Se fosse stata lei a permettere che lui la uccidesse.

    Se il non provare più orrore di fronte alla vista di tutto quel sangue fosse un segno della morte imminente.

    Se fosse un buon segno.



    Se lui lo sapesse.

    Che stava cominciando a sentirsi appena un po’ meglio.

    Che l’oscurità che le avvolgeva la vista sembrava starsi dipanando, pian piano.

    Che trovava quasi buono il sapore metallico del sangue che lui le stava offrendo, quello che sgorgava dal suo polso.

    Quello che lei beveva avidamente, rispondendo docilmente al suo richiamo.

    La più grottesca delle scene d’amore.

    D’amore, poteva darsi.

    Se solo non fosse stata così stanca.

    Se solo lui l’avesse baciata un attimo prima che lei ricadesse in un sonno di cui non poteva conoscere la durata.
     
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  2. §alexiel§
     
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    *me è senza parole...*
     
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1 replies since 18/2/2007, 00:00   150 views
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