Due o tre cose cattive

fan fiction su VK

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  1. Tohru Honda
     
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    Ecco l'ultima fan fiction che ho scritto su VK, finora ^^.
    L’argomento trattato è abbastanza scabroso, nonché, considerate le atmosfere ed i motivi di Vampire Knight, notevolmente fantasioso; mi sono permessa, dunque, di giocare un po’ più liberamente con il carattere dei personaggi e con il sapore dell’opera, in modo da prepare un terreno che rendesse maggiormente plausibile il concretizzarsi di simili circostanze. Il risultato, nel mio progetto iniziale, avrebbe dovuto suonare più “doloroso” che passionale, ma non sono sicura di essere riuscita a renderlo effettivamente tale… male che vada, la colpa è di *Aeterna*, che ha insistito perchè sviluppassi una ff su un soggetto del genere XDDD!
    Ah, nel caso voleste lasciarmi un graditissimo commentuccio, vi reindirizzo a questa pagina, dove ho pubblicato originariamente la storia.
    Buona lettura ^^!













    Uno fra gli svantaggi del dormire con due uomini è che, la mattina dopo, non hai idea di come fare a scendere dal letto senza svegliarne almeno uno.



    Non era quello il problema principale, naturalmente.

    Ma era il più urgente, e i raggi del sole che facevano lentamente capolino nella stanza, aggirando facilmente il debole ostacolo costituito da un tendaggio fin troppo leggero, non facevano che metterle fretta.

    Voglia di correre via, più veloce che potesse.

    Correre a nascondersi in un rifugio silenzioso, uno qualsiasi, incurante del dolore che provava alle gambe già spezzate.

    Scappare, senza che nessuno dei due la vedesse abbandonare tanto vigliaccamente quel teatrino di sangue, piacere e colpa; ricoprirsi con abiti che, ad ogni risveglio, le sembravano farsi sempre più stretti, più difficili da indossare.

    Sebbene si fossero lasciati sfilare con tale facilità, fino a poche ore prima.

    Poche ore. Credeva.

    Non avrebbe saputo dire con precisione quanto tempo fosse trascorso, da quando aveva fatto il suo ingresso in quella camera, piano, un’ostentata timidezza che non le si addiceva più.



    Guardò prima uno, poi l’altro ragazzo al proprio fianco.

    Si trattava solo di prendere una decisione, in fondo.

    Ciò che non aveva saputo fare, la notte appena passata.

    E quella precedente.

    E quella prima ancora.

    Scegliere chi potesse guardarla, dal momento che non era riuscita a scegliere da chi lasciarsi toccare.

    Non aveva voluto. Non ci aveva nemmeno provato.

    Non gliel’avevano permesso, forse…?



    Scelse, dunque.

    Il ragazzo più vicino al suo vestito, scompostamente piegato per terra, in parte coperto da un lembo del lenzuolo blu che ricadeva disordinatamente da un lato del letto, scoprendo appena la figura addormentatasi nell’angolo opposto.

    Era il letto di Kaname, quello, in fondo. Era impensabile che anche solo le sue lenzuola potessero trattare Zero con riguardo.

    Lui non lo faceva mai.

    Aveva finito per prenderne davvero coscienza soltanto in quegli ultimi giorni, da quando si era decisa a ricoprire un ruolo attivo anche in quel gioco deliziosamente volgare, all’inizio abituato a vederla muoversi nei panni di una bambolina di stoffa, priva di vita, che accettava di farsi piegare e strappare in qualunque modo o punto desiderassero quei due ragazzini dispettosi.

    E rubata, e presa, e ferita più volte.

    Sciolti i boccoli castani e tagliati i merletti dell’abitino rosa, trafitta da aghi in una lenta tortura tanto piacevole quanto dovuta e dolorosa, gli stessi che si occupavano di slacciarle le cuciture della bocca, senza chiederle il permesso… come se, con il suo silenzio, l’avesse già concesso.

    Beh, era da un po’. Da un po’ di tempo, che aveva cominciato ad anticiparli, scegliendo chi baciare per primo… recandosi nella stanza dell’uno senza avvisare l’altro, aspettando che quest’ultimo li raggiungesse, messo in allarme dalla sua assenza. Stuzzicare la gelosia di entrambi, senza rispettare un turno preciso, stabilire le regole del gioco per poi infrangerle all’ultimo momento, premiare chi non sia arrabbiava per quel suo improvviso sottrarsi.

    Fingere di poter mettere la parola fine, quando avesse voluto, senza che nessuno dei due potesse sperare di farla cascare ancora.

    Fingere di non far caso a come entrambi cercassero di mostrarsi convinti da quella sua bugia, non farle capire di averla smascherata; una delicatezza che apprezzava, in un certo senso, se non altro perché le consentiva di simulare il possesso di un’ultima goccia di orgoglio.

    Il fatto che lasciassero decidere a lei.

    Che avessero smesso di trascinarla, aspettando di essere presi per mano.

    Che cascassero tanto ingenuamente nel suo scherzo, i diavoletti precedentemente così sicuri di sé, quando la vedevano dimenticarsi di rivolgere le medesime attenzioni ad entrambi; era allora che dimenticavano di dover richiedere la sua approvazione, e lei tornava ad obbedire silenziosamente, come nei primi giorni, permettendosi di versare appena un paio di lacrime, nel caso in cui la sua speranza in una conclusione che, una volta tornata in camera propria, le consentisse di guardare al proprio riflesso senza sentirsi male per il disgusto, le venisse portata via con troppa violenza.

    Erano quelli i momenti, quando teneva le palpebre ostinatamente serrate nella speranza che tutto finisse il prima possibile, che non poteva fare a meno di chiedersi come Kaname e Zero, dopo quanto accaduto, fossero in grado di comportarsi con lei con tanta naturalezza.

    Come potessero scoccarle un affettuoso bacio sulla fronte, sfiorarle la mano con simile delicatezza.

    Incrociare il suo sguardo, nei corridoi, e ricambiarlo con gli occhi più innamorati e devoti del mondo, timorosi di ferirla, se solo si fossero soffermati sulla sua figura un attimo più a lungo… come se le ferite infertele la notte precedente fossero già scomparse.

    Come se nulla fosse accaduto.

    Scrutarla come se fosse incredibilmente fragile, senza curarsi di averla già scheggiata.

    Senza essersene resi conto.

    Senza aver capito nulla.

    Forse.

    Ogni tanto, il loro sorriso le sembrava un po’ più chiuso, il loro atteggiamento più apprensivo. Si, ogni tanto le veniva il dubbio che quelle premure avessero origine dal desiderio di farsi perdonare, di chiederle sinceramente scusa. Di stringerla fra le proprie braccia, teneramente, senza nessuna terza persona in giro.

    Solo stringerla.

    Ed era difficile resistere al bisogno di gridare, una volta resasi conto, ancora, di come quel desiderio fosse più debole della loro voglia di scoparsela.





    Si chinò sulle ginocchia, per poi scavalcare silenziosamente il bell’addormentato che riposava al suo fianco, un Kaname sprofondato nel sonno con le proprie dita ancora intrecciate a quelle di lei; sciogliere quella dolcissima presa la fece sentire in colpa, per un attimo.

    Pericolosamente in bilico sopra di lui, decise di concedersi pochi secondi per guardarlo.



    Era bello, davvero. Incredibilmente. Con gli occhi chiusi e quella mano che pareva stare tuttora stringendo la sua, assomigliava tanto allo splendido ragazzo di cui si era innamorata.

    Anche Zero, il capo adorabilmente sprofondato in un cuscino troppo grande, gli assomigliava.

    Era stata questa la sua colpa, probabilmente: l’essersi innamorata di entrambi.

    Non era sbagliato che, adesso, la sua incapacità a distinguere fra due amori troppo intensi perché potesse riscoprirsi capace di rinunciare ad uno di loro, l’avesse costretta ad accettarli tutti e due insieme.

    Anche se era troppo.

    Troppo forte, troppo doloroso, troppo umiliante.

    Era ciò che più le faceva male.

    Ed era una punizione.

    Per aver giocato all’indecisa, per essere sempre scappata.

    Ora non avrebbe più potuto farlo, nemmeno se l’avesse voluto.



    E non sapeva se volerlo o meno.



    Anche questa era una punizione.

    Il riconoscere di essere una cattiva ragazza, di esserlo davvero.

    Riconoscersi in grado di accettare l’orrore provato ogni volta che si trovava da sola, ogni volta che le capitava di fare i conti con qualcuno che sapeva, ogni volta che provava dolore.

    Ogni volta che capiva di poterlo accettare, di poter continuare a stringere i denti, purchè quel piacere non avesse fine.

    Era la consapevolezza di quel piacere.

    Era stata quella a trasformare i due ragazzi che amava in mostri irriconoscibili, ai suoi occhi.

    Coloro che la tormentavano nel sonno, che la costringevano ad affrontare un lato di sé che non avrebbe mai voluto vedere, una rete di eccitante ed intollerabile lussuria da cui non riusciva a liberarsi… in qualche modo, non lo voleva nemmeno.

    Non lo voleva, la bambina viziata che si era detta disposta ad accettare qualunque degradante compresso, pur di non lasciarli andare.

    Ogni rimorso, ogni ombra di perfidia.

    Quella di loro, interessati al suo dolore solo dopo che lei aveva permesso di infliggergliene abbastanza.

    E quella di lei, a cui capitava di chiedersi perché non li costringesse a farlo, invece.



    Anche adesso, mentre indugiava su di lui, domandandosi se non stesse soltanto facendo finta di dormire.

    Se, di lì a poco, non l’avrebbe afferrata improvvisamente per le gambe, ritrascinandola in quella danza alla quale non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi; incapace di dirgli qualsiasi cosa, anche solo un no, la propria bocca troppo impegnata a cercare quella di lui.

    Non accadde nulla del genere.

    Chissà se avrebbe dovuto sentirsi sollevata o delusa.

    Delusa, come quando Zero, più arrabbiato del solito a causa della malizia con la quale, poco prima, lei si era divertita a stuzzicarne la gelosia, si era dimenticato di scoccarle il bacio sulle labbra che usava rubarle ogni volta, dopo averla riaccompagnata in camera, piccolo rito che li vedeva quasi sempre protagonisti, alla fine di ogni notte.

    O come quando Kaname, invece di approfittare del loro essere rimasti soli per ricondurla nuovamente nella propria stanza, si era limitato a starle accanto e a sfiorarle appena i capelli, con una dolcezza che lei non si sentiva più in grado di sopportare. Non se così cristallina, non se priva di una sola di quelle velenose carezze.

    Delusa.

    Perché non avevano capito niente.



    Si decise a sollevarsi con cautela, attenta affinchè al fruscìo delle lenzuola non seguisse nessun’altro rumore.

    Lentamente, si mise a sedere sull’unico ritaglio di quell’ampio materasso in cui, accucciandosi, avrebbe potuto evitare di urtare accidentalmente uno dei due compagni; cercando di fare il più piano possibile, si chinò a raccogliere le scarpette di tela che aveva abbandonato all’angolo del letto, i lunghi lacci che avrebbero dovuto stringerla fino a poco sotto il ginocchio sparsi disordinatamente tutt’intorno.

    Prima ancora di mettersi alla ricerca della propria biancheria intima, probabilmente nascostasi in mezzo a qualche piega della calda coperta blu, cominciò ad intrecciare ogni nastro intorno alle proprie gambe, con infastidita pigrizia, indugiando con lo sguardo lungo i contorni irregolari del proprio abito.

    Era bianco, il suo vestito.

    Bianco, lo era sempre.

    O meglio, lo era quando le veniva dato modo di prepararsi in anticipo, invece di cedere agli improvvisi capricci dei suoi due amanti.

    Quando era tutto calcolato. Quando sapeva cosa stava per fare. Quando le era concesso di pensarci.

    Di prendersi in giro, di scherzarci su.

    Di piangere un po’.

    Di indossare dei colori sui quali quella pioggia di sangue sottrattole, o quella che insisteva per ingoiare, si vedesse meglio.

    Perché lo ricordasse.

    Perché, nello sfregare con foga, potesse versare ancora un paio di lacrime su quel sangue.

    O riassaporarlo vagamente, riaccarezzandolo con la punta della lingua.

    Trovare una scusa per gettare via la confezione dell’errore, macchie scarlatte impossibili da rimuovere.

    Gettarle via, insieme a ciò che aveva assistito al loro lento ricadere, goccia dopo goccia, su quella stoffa che non sempre loro si curavano di toglierle.

    Fare in modo che fosse visibile.

    Visibile, a tutti coloro che le capitava d’incontrare, nello scendere lentamente le grandi rampe di scale presenti nel dormitorio della Night Class, il mattino. Troppo presto, perché quegli studenti notturni fossero già andati a dormire.

    Troppo presto, perché non si accorgessero di una figurina insanguinata che percorreva silenziosamente ogni lungo corridoio, addosso l’odore di due uomini che tutti erano ben in grado di distinguere.

    Non avrebbe saputo dire con esattezza se quegli sguardi a metà fra la rabbia ed il disprezzo avessero origine dalla presenza, sui suoi abiti, del sangue di entrambi, o solo di quello di lui.

    Non lo sapeva, perché, fortunatamente o meno, nessuno di loro si disturbava a rivolgerle una sola parola, sebbene incapace –e questo sicuramente non era un bene- di distogliere gli occhi da lei, soffocando con difficoltà ogni accusa.

    Solo una volta, un sussurro. Da labbra che Yuuki avrebbe immaginato di sentir esprimersi molto prima.

    Un sussurro, un’osservazione che l’avrebbe spinta a gridare, se solo non l’avesse rivolta a se stessa così tante volte, in precedenza.

    O se solo non fosse stato Takuma ad urlare un aspro rimprovero al posto suo, reazione inaspettata che aveva costretto l’amico al silenzio, il resto dei presenti ad abbassare lo sguardo.

    Si era chiesta se ciò fosse dipeso da una precisa richiesta di Kaname, in merito; Kaname, con cui lei insisteva per non farsi accompagnare alla porta dell’edificio, dopo aver lasciato andare via Zero qualche minuto prima.

    Si, credeva che fosse stato lui. Ad assicurarle almeno un soffio di calma, nel bel mezzo di quel tormento che lei insisteva per sopportare, contro ogni protesta dei due ragazzi.

    Lui, che era certa la stesse accarezzando con gli occhi, mentre la osservava indossare il vestito stropicciato, le cui pieghe deformate non si adattavano più molto bene al suo corpo, che avvolgevano in onde troppo larghe.

    Aveva avuto ragione, dunque. Non stava dormendo.

    Non potè fare a meno di chiedersi, allora, perché mai poco prima le avesse permesso di alzarsi, rinunciando ad intrappolarla nel suo abbraccio.

    Come mai, questa volta, avesse preferito guardarla stringere con esitazione ogni nastro delle scarpe, tentare vanamente di risistemarsi addosso angoli troppo sgualciti di tessuto.

    Aspettare, forse, che tutti i lacci s’intrecciassero gli uni agli altri, solo per il gusto di scioglierli di nuovo.

    Forse.

    Lo sperava.

    Lo sperava, perché l’intuita dolcezza di quello sguardo aveva cominciato a farla tremare.

    L’idea di lui che l’osservava rivestirsi, sorridendo appena.

    La faceva star male.



    Fu un attimo.

    Un secondo soltanto, prima di accorgersi delle lacrime che aveva cominciato a scorrerle lungo il viso.

    Un attimo, all’improvviso.

    Senza alcun avvertimento.

    Senza che fosse in grado di comprendere il perché.

    Perché la testa le girasse, perché quella nausea insopportabile.

    Perché non credeva di dover dare la colpa al sangue che aveva ancora in bocca, macabro ricordo della sera precedente.

    Perché quel desiderio di piangere, perché le suonasse tanto bene.



    Lo capì, ma corse ugualmente in bagno a sputare quel viscoso impasto rosso, quel qualcosa che non avrebbe mai dovuto trovarsi sulle labbra di una ragazza perbene.

    Frammenti scarlatti, dappertutto.

    Dappertutto, lo specchio davanti a lei che ne rifletteva un’immagine sporca di sangue.

    Il vestito sempre meno bianco.

    Il ricordo di una risata cristallina, un bambino che si divertiva nel vederla rotolarsi distrattamente fra nuvole di stoffa.

    Nulla di rosso, allora.

    Nulla di rotto, nulla di doloroso.

    Gli abiti erano candidi, i sorrisi non avevano bisogno di nascondersi.

    I mostri che c’erano, lei riusciva ad amarli.

    Non avrebbe mai pensato di dar loro la colpa. La colpa di un qualcosa di cui era la sola responsabile, lei, l’unica a possedere una coscienza capace di fermarla.

    L’unica a non essere nata nel sangue, l’unica a non esservi stata spinta dentro.

    L’unica nelle cui vene non scorresse del veleno.

    Non dall’inizio, almeno.

    Non prima di quel giorno, quando aveva deciso di varcare una soglia familiare, inconsapevole dello spettacolo di sangue che vi avrebbe trovato oltre.

    Del modo in cui vi sarebbe finita coinvolta, senza riuscire a ricordare da quanto tempo si trovasse fra le braccia di Kaname, quando lui l’avesse spinta al muro.

    Perché Zero la stesse guardando in quel modo, negli occhi un ultimo barlume di sconvolta consapevolezza, troppo flebile per prendere la parola. Sul punto di spegnersi.

    Perché mai Kaname avesse cominciato a baciarla in quel modo, perché lei stesse rispondendo tanto docilmente.

    Perché non l’avessero fatto prima.

    Se l’eccitasse di più la sensazione della lingua di Kaname che le accarezzava languidamente la pelle, seguendo a ruota il percorso precedentemente tracciato dalle sue mani, o il sapere che Zero le stesse leggendo sul volto quell’emozione intollerabile.

    Se la tormentasse maggiormente il sempre più vicino rumore dei passi di Zero o quello, più lento, dei bottoni della propria camicia che ricadevano per terra, uno dopo l’altro, strappati dalla foga con la quale Kaname la stava liberando dai vestiti.

    Di chi fossero quelle mani. E dove fossero le sue.

    Quali labbra stesse baciando. E quale sarebbe stato il turno.

    Non l’aveva deciso lei.

    E neanche loro, troppo confuso il desiderio.

    Era successo, e lei l’aveva semplicemente trovato giusto.

    Che il primo fosse colui che l’aveva accolta durante il suo risveglio alla vita. Colui che amava da più tempo, colui che le aveva permesso di essere lì.



    Avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo?



    Il primo ad amarla.

    In passato, come in quel momento.

    Aveva creduto che fosse giusto così.



    Lo sentì avvicinarsi, lentamente.

    Spingere la porta che lei aveva imprudentemente dimenticato di chiudere e appoggiarsi allo stipite, lo sguardo fisso sul suo viso, incurante del sangue presente tutt’intorno.

    In silenzio, come volendo rispettare quella cascata di singhiozzi che ancora si rifiutava di esaurirsi.

    Come se la sua sola presenza, per quanto dolce, non bastasse a violarla brutalmente.



    Il suono delle lacrime.

    Il loro suono, alternato a quello del respiro di lui, basso e calmo, alle lancette di un orologio troppo rumoroso.

    Un raggio di sole che le feriva gli occhi, a dispetto delle palpebre disperatamente serrate.



    Il calore di quel corpo che la tirò a sé, con ferma dolcezza, vincendo le sue deboli proteste. Che la tenne stretta a lungo, finchè non la sentì smettere di tremare, permettendole di aggrapparsi a lui con una forza tale da incidergli la pelle.

    Sarebbe guarita presto, comunque.

    Di sicuro, ma lei avrebbe desiderato ugualmente sfiorarla con le labbra, nella speranza di mettere a tacere almeno un po’ il suo dolore.

    Per ringraziarlo di aver provato a fare lo stesso, con lei.



    Si sentì prendere in braccio, sollevata con estrema leggerezza.

    Il suo primo fu istinto fu quello di aprire gli occhi, per accertarsi che lui la stesse guardando. Per capire come la stesse guardando.

    Se volesse riportarla a letto solo per stringerla e baciarle via le ultime lacrime, o per coinvolgerla in un’ennesima sessione d’amore che lei non avrebbe saputo sopportare, non in quel momento.

    Se la stesse conducendo verso un piccolo angolo di morbido paradiso, o nell’antro spigoloso da cui era riuscita ad uscire a fatica.

    Beh, non lo fece. Tenne gli occhi chiusi.

    Preferì accucciarsi al petto del suo uomo, come un cucciolo impaurito, in attesa che lui le rivelasse le proprie intenzioni.

    Disposta ad accettarle, qualunque esse fossero, a condizione che lui la tenesse stretta a sé ancora un poco.

    Solo un poco, avvolta da quel vellutato tepore.

    Prima che ad esso se ne aggiungesse un altro, e a lei venisse ancora voglia di gridare.
     
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  2. thòs
     
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    Adoro il tuo stile. E adoro questa fan fiction. Angosciante e bellissima...
     
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1 replies since 20/11/2007, 21:40   163 views
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